Il Biscino
In quegli anni ( 1895-96 ), lo stato decise di porre fine al brigantaggio maremmano. Era giunta l’ora di “acchiappare una leggenda”. Era tutto un via vai, lungo i tortuosi sentieri dei Lamone e dei monti di Castro e le soleggiate e polverose strade del grossetano. La zona sembrava suscitare un interesse mai visto. Strani topografi, di finta origine francese, andavano esplorando il territorio e interrogando centinaia di abitatori dei boschi, mentre annotavano ogni movimento, soprattutto il passaggio di asini troppo carichi di viveri e vino, per soddisfare soltanto la fame e la sete dei magri conduttori.
Baffuti caprai mai visti e conosciuti in quel microcosmo s’aggiravano, perennemente in cerca di bestiame disperso o “ammurciato”, per gli anfratti e le “murce” del lamone, al di fuori dei sentieri battuti, lontano dalle misere capanne di pastori e carbonai, lontano dalle guardie campestri, preoccupate di riscuotere la fida pascolo; lontano, così sembrava, dal consorzio vivente. Strani caprai, troppo simili a banditi per esserlo, troppo propensi agli appostamenti, troppo incapaci di ritrovare il fantomatico bestiame perduto. Molti occhi nascosti li scrutavano, li indagavano, ne seguivano i movimenti. La macchia era tutto un concerto dì fischi variamente modulati, di colpi di scure volutamente ritmici sugli alberi, dì anomale scampanate lanciate con i grossi campani da “imbasciata”; troppa gente tossiva all’improvviso senza causa apparente. I movimenti di tanti uomini erano diventati ossessivi, insensati. Vaccai in cerca di bestie fuggite, perseguitate dalla mosca; cavallai intenti a seguire le inesistenti tracce di fantomatici cavalli; ancora caprai alla ricerca di qualche becco disperso, allontanatosi con una sua corte di capre, vetturini senza muli, che si addentravano nel bosco maledicendo ignoti ladri. Il Lamone sembrava aver inghiottito improvvisamente migliaia di animali, che decine di persone non riuscivano a trovare. Era in atto una ben concertata azione di depistaggio e di informazione. I briganti tenevano sotto controllo, in tempo reale, tutto il territorio, mentre sembravano scomparsi nel nulla. Persino i soliti informatori, quelli che per quattro soldi confidavano alle forze dell’ordine anche ciò che non sapevano, restavano muti. Scomparsi i bivacchi, vuote le capanne e i nascondigli conosciuti, scomparsi i mozzoni, i fucili a scrocco, che proteggevano gli accessi ai rifugi dei briganti. Le onnipresenti figure dei re dei Lamone e del suo luogotenente, sembravano essersi volatilizzate, inghiottite anch’esse dalle rapaci pietraie del Lamone.
I briganti, Tiburzi e Fioravanti, se ne stavano, buona parte del tempo, tranquillamente in paese, a Farnese, nella locanda del Postiglione a bere e mangiare, in compagnia degli avventori, giocando accanitamente alla morra e, quando il vino apriva le porte del canto, scambiandosi a braccio infinite, ironiche ottave sul tema “briganti e carabinieri”, la locanda era nella piazza del paese, al piano terra di una strana costruzione incorniciata da due stretti torricini arrotondati, che presentavano piccole feritoie quasi invisibili. Alla base di ogni torricino c’era una nicchia, che poteva comodamente contenere un uomo, nascosta ciascuna da una angoliera di legno, in cui venivano riposti gli orci e le “panate” per mescere il vino. Ogni movimento della forza pubblica, di tipi sospetti e di strani viaggiatori, veniva segnalato da alcuni perdigiorno, con cenni e mosse convenuti ad un ragazzino vigile, sempre appostato alla porta della mescita. In pochi secondi i briganti scomparivano, trattenendo il fiato ed im pugnando la fida doppietta, nei torricini e ne uscivano quando le acque si erano calmate. Alla sera gli uomini, quelli fidati, a cui veniva permesso, portavano i figli più grandi a vedere Tiburzi, il vecchio leone ormai canuto e facile a commuoversi, come succede ai nonni. Il brigante raccontava le sue gesta a quel pubblico raccolto e deferente, forniva i suoi consigli per farne degli uomini, ascoltava paternamente le loro lamentele.
Fu così che una volta incontrò gli occhi tumefatti di un povero ragazzo lacero e impaurito, che lo ascoltava proteso in attesa di un suo interessamento. Era il figlio dello scopino e faceva il “biscino”, il garzone mal pagato di un misero pastore.
Domenichino, a cui nulla sfuggiva, si sentì penetrare fin nell’intimo da quella richiesta muta, accorata e insistente e provò pietà per quel bambino, come se fosse suo figlio che non vedeva da anni. Si asciugò una lacrima furtiva, in fondo, per quanto feroce e determinato, era anche lui un uomo, con tutte le debolezze, vizi e virtù degli uomini.
Aspettò che tutti gli altri se ne andassero, lo fece sedere a tavola e ordinò da mangiare. Un banchetto, per i tempi e per il ragazzo, sontuoso. Il frisano mangiò tutto, con una lentezza esasperante, gustando ogni briciola, come se dovesse calmare una fame di millenni.
Alla fine, Tiburzi, confessò il bambino. Venne fuori una storia, comune a molti allora, dì miseria, di prepotenze subite, di impotenza, di rabbia repressa. Giorni e giorni con un tozzo di pane, a correre dietro a pecore più affamate di lui, che sconfinavano continuamente nei campi altrui. Era un continuo fioccare di botte da parte del padrone e dei proprietari danneggiati, un susseguirsi esasperante di minacce che lo umiliavano ed impaurivano.
Il vecchio brigante sorrise, le stesse cose, mezzo secolo prima, erano successe anche a lui. Da allora nulla era cambiato.
Domenichino si alzò; si allacciò i cosciali pelosi di pelle di cane; strinse in vita due cartucciere; riempì la “catana” con pane, formaggio, lardo ed un fiasco di vino, colmò una borraccia di acqua; afferrò una doppietta nuova fiammante; si accostò alla porta della locanda e modulò una serie di fischi acutissimi, inserendo i due indici nella bocca. Il ragazzo sentì ripetere, sempre più lontano, la serie di sibili, fino a quando dive-nuti ormai flebilissimi, si persero nel silenzio. Poi, dopo un poco, crescendo di intensità quasi impercettibilmente, un altro moti-vetto fischiato veniva ripetuto, finché potè essere udito chiaramente. La strada era libera.
Tiburzi disse appena, con tono suadente: “Andiamo!” E si avviò zoppicando nel buio. Camminarono in silenzio per il resto della notte, raggiunti, ogni tanto, da sibili o colpi di tosse, che spaventavano il disorientato liscino e a cui il vecchio brigante rispondeva con una specie di grugnito. Cento persone vigilavano per lui. Passarono il Fiora sul ponte di San Pietro e all’alba avevano raggiunto la cima più alta dei monti di Castro.
Domenichino si fermò, tagliò un po’ di pane e formaggio e lo diede al ragazzo; mentre egli si contentava di un tocco di lardo. Quando il sole fu alto nel cielo e scomparvero le brume mattutine, Tiburzi si alzò, chiamò vicino a se il Piscino e gli mostrò un vasto territorio che si perdeva nel mare ad occidente, veniva incorniciato a sud dai monti di Canino, scavalcava, a settentrione, la torre di Mandano e la gobba di Poggio Buco, s’addentrava ad oriente nella selva del Lamone ed oltre, fino alla Montagnola, che dominava il lago di Bolsena; “Questo è il mio regno su cui tu, da domani, potrai pascolare tranquillamente, senza che nessuno si azzardi ad impedirtelo, perché così vuole Tiburzi. Ed ora vai”. Il ragazzo sorpreso si volse a guardare; ma il brigante, con una serie di agili balzi, come se non sentisse il peso degli anni o il dolore della gamba ferita, era già scomparso, volatilizzato nel suo regno.
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