Frate Formica e i briganti
Lungo il fiume Olpeta, alle propaggini della selva del Lamone, accanto ad una delle tante antiche vie trancicene che collega, ancora, Farnese con Pitigliano, sommerei dalla vegetazione si trovano i ruderi di una chiesa, risalente al millecento e nota come Santa Maria di Sala (o Santa Marisala, come preferiscono chiamarla i farnesani). Sala era stato, probabilmente un centro amministrativo importante in periodo longobardo. In seguito fu sede di un castello che dominava un feudo di notevole estensione, compreso dapprima nella cosiddetta “terra guiniccesca” e quindi tra i possedimenti degli aldobrandeschi ed infine dei Farnese. Feudo durato fino all’avvento di napoleone nel patrimonio di San Pietro, che pensò bene, agli inizi dell’ottocento, di decretarne l’estinzione.
Nel corso del dodicesimo secolo, orando ancora era in piedi il castello, venne costruita la chiesa, probabilmente su di un precedente luogo di culto, che, quasi sicuramente, era andato a sovrapporsi ad un antico santuario pagano, dedicato ad una Gualche divinità protettrice delle sorgenti. Infatti, ancora oggi, da una bassa galleria naturale, formatasi nel travertino sgorga un’acqua fresca e cristallina a cui per millenni erano state attribuite virtù miracolose. Il liquido che fluiva dalla sorgente, prima di andare a disperdersi nei campi, attraversava, lungo un’apposita canaletta, l’unica navata della chiesa, ai piedi dell’altare. Nel 1190 il vescovo di Castro offrì la chiesa e le adiacenti strutture ad alcuni certosini, provenienti da Staffarda che, per qualche decennio, tentarono invano di mettere su un’abbazia. Fallito il tentativo ed andati via i monaci, la chiesa passò sotto il rettorato di uno dei preti del clero di Farnese e la sua custodia e gestione venne affidata ad un eremita.
Nei secoli, a Santa Maria di Sala, di eremiti ne passarono tanti; più o meno in odore di santità anche se, in qualche caso, il saio più che un uomo di Dio, ricopriva un latitante, venuto da terre lontane, in un luogo dove erano sconosciute le sue malefatte.
Tra i tanti, alle soglie dell’ottocento, si era creata un’ottima fama, un umile fraticello serafico ed estremamente laborioso che tutti chiamavano: frate Formica. L’eremita aveva restaurato la chiesa e gli annessi, ricaptato la sorgente, dividendo in due parti il rivolo d’acqua che ne usciva. Un ramo continuava la sua azione taumaturgica, attraversando ancora la chiesa; mentre l’altro provvedeva ad annaffiare l’orticello di frate Formica in maniera tale che frutta ed ortaggi abbondavano in ogni stagione riempiendo la parca mensa del sant’uomo, le tavole imbandite del clero farnesano ed i cesti di tanti poveracci venuti a mendicare un po’ di cibo. Sta di fatto che, sia per la virtù miracolosa dell’acqua, sia per i frutti dell’orto, sia per l’amabilità dell’eremita, sia perché la sosta nella chiesa, lungo una via polverosa e malagevole, rappresentava un dolce refrigerio, col tempo sempre più gente si fermava a Santa Maria di Sala e tra una chiacchiera, una bevuta e qualche ave maria, il luogo di culto divenne famoso e frate Formica iniziò ad emanare odore di santità. Nella chiesa, accanto alla pila dell’acqua santa, c’era una cassetta di ferro per raccogliere l’elemosina. Questa per secoli era rimasta quasi sempre vuota e solo qualche lisa monetina di rame vi era caduta, chissà come all’interno.
Negli ultimi tempi invece cominciava a riempirsi di baiocchi con tale celerità, che l’eremita non faceva in tempo a distribuirne il contenuto ai poveracci; tant’è che il fabbro del paese finì per costruire e regalare un cofano enorme, come quelli che racchiudevano i tesori dei pirati. Anche questo cofano faceva presto a riempirsi e la chiesa campestre era diventata l’attrazione dei poveri di tutto il circondario. Ad ognuno frate Formica dava secondo i propri bisogni, prelevando dalla cassa, che sembrava non svuotarsi mai. La domenica poi venivano in tanti, che non bastavano tre messe a contentarli tutti. Sembrava che si svuotasse il Lamone. Decine di vaccai, con la lacciara ingrassata col sego posta a bandoliera su un corpetto unto e bisunto ed un cappellaccio floscio in testa, messo alla “dio ti fulmini!”. Un’infinità di caprai con i cosciali pelosi di pelle di cane, che sembravano un corteo di satiri pronti ad iniziare un rito orgiastico. Alcune brigate di carbonai, con i loro “mei”, talmente sporchi di nero che, frate Formica, ogni volta, si faceva il segno della croce spaventato, scambiandoli per diavoli. Una torma di donne il cui cicaleccio non si fermava mai, nemmeno all’elevazione. In fondo, poi, un bel po’ fuori dalla chiesa, comparivano sempre quattro uomini enormi, vigorosi, con certi barboni scuri ed occhi torvi; chiusi in lunghi pastrani di pelle unta di sego, che rispondevano al sacerdote, compiaciuti della loro voce tenorile.
Quando, finito l’ufficio sacro, tutti se ne andavano, i quattro entravano in chiesa si sedevano nelle ultime file di banchi e sbirciavano, in apparenza distrattamente, il forziere con un fare da intenditori. La cosa si era ripetuta diverse volte, per cui un giorno il rettore chiamò l’eremita per metterlo in guardia. Probabilmente i quattro erano famosi briganti, forse gli stessi Saltamacchione e Corata con i loro compagni di delitti e tanto sbirciare voleva dire una sola cosa: che essi avevano l’intenzione di rubare il cofano. Chiaro che di giorno, con quel via vai di gente, il furto era quasi impossibile; ma di notte, con la chiesa senza porte… Fu così che ogni sera frate Formica trascinava il forziere e lo chiudeva nella sua cameretta, nei pressi del letto; certo di averlo messo al sicuro. Ma i briganti, perché erano briganti, non volevano rinunciare alla preda e, pensa che ti ripensa, trovarono il modo di impadronirsi di quel ben di Dio.
Da tempo l’eremita, vuoi perché ormai avanti nell’esercizio della santità, vuoi per i lunghi digiuni ed astinenze, vuoi per la forzata solitudine notturna, aveva iniziato ad avere delle visioni e a sentire voci celestiali, ancora non ben chiare; ma sicuramente provenienti dall’alto. In particolare, negli ultimi giorni, tutte le notti, quando il buio era più fitto, una bella voce virile, suadente e lontana lo chiamava: “Frate Formica! Frate Formica!” E poi si perdeva tra i fruscii della notte. Il povero uomo non poteva capacitarsi e temeva ed aspettava ogni sera il ripetersi dell’evento. Ogni volta la voce era più chiara e l’invito più nitido: “Frate Formica! Frate Formica!, pecorella di Dio, sono Gesù e ti voglio portare con me!”. L’eremita si dava i pizzicotti per capire se stava sognando; ma il richiamo era reale.
E così avanti per varie notti, con la voce sempre più melliflua e suadente ed il fraticello sempre più convinto di essere chiamato a godere del paradiso.
Una notte senza luna, l’invito celestiale tardava a venire ed il frate, stanco per il lungo giorno di preghiera e lavoro, si addormentò beatamente. I briganti salirono silenziosamente sul tetto della sua cameretta, tolsero, senza far rumore, alcune tegole e calarono due corde. Subito ed improvvisa squillò la voce tanto attesa “Frate Formica! Frate Formica! Sono Gesù e ti voglio portare in cielo con me.” Il frate si svegliò e tutto beato esclamò: “Dimmi o mio Signore”. Di nuovo la voce, suadente e melliflua come non mai iniziò a replicare: “Frate Formica, ti porterò in paradiso assieme alle tue opere; però tu qualcosa devi fare!” “Cosa o mio Signore?” “Frate Formica, non accendere candela o lanterna, cerca nel buio e troverai due funi. Ad una legherai il cofano che racchiude le opere pie tue e dei fedeli ed all’altra ti legherai tu stesso. Fai bene attenzione a stringere bene i nodi, in modo che tu ed il forziere non possiate cadere.” Pieno di santo entusiasmo l’eremita legò nel migliore dei modi il cofano, quindi, con l’altra fune provvide a se stesso. Il forziere prese la via dei cieli in un battibaleno e quasi immediatamente scomparve. Dopo un po’ frate Formica si sentì sollevare con una lentezza quasi esasperante fino alle travi del tetto. Fu allora che la voce suadente e melliflua si trasformò in una risata sgangherata e corale. L’eremita, in un attimo si accorse che qualcuno aveva lasciato la corda e che stava precipitando. E vide le stelle, non quelle però che sperava di vedere.
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