IL SENTIERO DI TIBURZI

Il bandito Domenico Tiburzi
DOMENICO TIBURZI, nato a Cellere nel maggio 1836, fin da giovane aveva accumulato un sentimento di ribellione a causa dell’estrema povertà delia sua famiglia, pur continuando a svolgere con tranquillità il mestiere di pastore e, in seguito, di buttero. Ben presto si era sposato con una donna che, morendo molto giovane, lasciò i due figli in affidamento ad alcuni parenti perché Tiburzi, al momento della scomparsa della moglie, era già latitante. Aveva infatti già iniziato a impegnare la giustizia a trentanni, uccidendo Angelo Del Buono, un guardiano del marchese Guglielmi, che gli contestava un furto di erba.
Catturato dopo due anni, fu condannato 18 anni di lavori forzati. Aveva sperato di essere amnistiato con la caduta del potere temporale dei papi. Non fu così. Dovette allora ingegnarsi per trovare una soluzione differente: riuscì a fuggire con altri due reclusi dalla casa di pena di Porto dementino, a Corneto Tarquinia, disarmando Tunica guardia presente. Rifugiatosi nella Selva del Lamone, accumulò ben presto numerose condanne. Tiburzi agiva in base ad un ideale molto confuso di giustizia sociale. Mentre da giovane aveva aderito all’attività clandestina della Lega Castrense, di indirizzo liberale, come brigante si era ritrovato a difenderei privilegi dei signori locali, sia pure in modo certamente inconsueto. Aveva infatti ideato la “tassa sul brigantaggio”, una sorta di assicurazione che i possidenti gli pagavano in cambio di protezione. Ma i soldi che prelevava ai ricchi, li elargiva con generosità ai poveri, in cambio di informazioni e servizi preziosi.
Rigido nei suoi principi tanto da disdegnare accordi con i delinquenti, implacabile con i traditori e fedele con gli amici, nel corso della sua lunga carriera commise 17 omicidi, ma solo per difesa o per eliminare spie e compagni che non accettavano i criteri della banda, ovvero il rifiuto della violenza gratuita e la ricerca del consenso tramite elargizioni anziché minacce.
“Domenichino” si atteneva infatti ai suoi comandamenti, una sorta di decalogo che prescriveva, tra l’altro, di onorare i signori del luogo, aiutare i disgraziati e soprattutto di non fare la spia. Era inoltre contrario all’uccisione dei carabinieri, considerati “poveri figli di mamma” costretti dalla fame a fare quel mestiere, anche perché provocava un aumento della repressione.
Durante gli anni trascorsi alla macchia Tiburzi aveva sempre cercato di condurre una vita quanto più possibile normale, mantenendo i contatti con la famiglia e tornando addirittura di nascosto a casa in occasione di avvenimenti importanti come la morte del figlio maggiore, il matrimonio di ocello minore oppure la nascita di un nipote. Nell’estate del 1896, accompagnato da Fioravanti, era persino riuscito a recarsi alle Terme di Rosette, in provincia di Grosseto, per curarsi l’artrosi, ma soprattutto per cercare un rimedio ai dolori al ginocchio destro, postumi di una ferita infertagli nel corso dell’azione in cui aveva trovato la morte Domenico Evagini.
Vecchio e zoppo, ostile ad accettare i vari mutamenti politici e sociali avvenuti negli anni della sua assenza e ignaro del cerchio che gli si stringe intorno, nella notte tra il 23 e il 24 ottobre 1596, in una casa colonica nei pressi di Capalbio ( Forane ), Tiburzi viene catturato dai carabinieri delle stazioni di Marsiliana e Capalbio. In quel casolare, abitato dalla famiglia Franci, dove Tiburzi e Fioravanti avevano chiesto ( o preteso ) ospitalità, ci fu una sparatoria e Tiburzi venne colpito ad una gamba. Quel che accadde in seguito non è chiaro. Secondo una versione furono i carabinieri ad ucciderlo con alcuni colpi di pistola; a parere di altri fu lo stesso “Re del Lamone” a suicidarsi, preferendo darsi la morte piuttosto che cadere nelle grinfie dell’autorità costituita”.
Ma se gli ultimi minuti della sua vita sono avvolti nel mistero, ancora più arcana, anzi, addirittura leggendaria, è la vicenda legata alla sua sepoltura. La versione più accreditata, ma anche la più fantasiosa, è quella secondo cui il parroco di Capalbio rifiuta di officiare un regolare funerale per “Domenichino” ritenuto un criminale, un peccatore, un senza Dio. Alla volontà del sacerdote si oppone però quella dell’intera comunità di Capalbio, che invece esige per il paladino dei diritti dei più deboli un’onorata sepoltura in terreno consacrato. Si arriva ad un compromesso: il corpo verrà sepolto in terra consacrata ma… solo per metà. L’altra dovrà restare fuori: gli arti inferiori restano dentro il camposanto, come vuole la tradizione, mentre la parte impura: testa, torace (e dunque l’anima) rimangono fuori.
Altri articoli del Sentiero dei Briganti
Le storie del focolare – Il liquorino di veleno
Il liquorino di veleno Un brigante da manuale, enorme, con una lunga barba nera, occhi di fuoco, che sembrava il diavolo in persona, mani grosse come pale, cappellaccio floscio, cosciali di pelle di capra; questo faunesco individuo era Angelo Scalabrini...
Le storie del focolare – L’ira di Basilietto, nemico dei mercanti
L'ira di Basilietto, nemico dei mercanti Giuseppe Basili era di farnese, lo chiamavano Basilietto, anche se si trattava di un trentenne energumeno atletico e muscoloso. Fortissimo, era anche irascibile, feroce ed avido; pieno di cieca cupidigia ed ira...
Le storie del focolare – Frate Formica e i briganti
Frate Formica e i briganti Lungo il fiume Olpeta, alle propaggini della selva del Lamone, accanto ad una delle tante antiche vie trancicene che collega, ancora, Farnese con Pitigliano, sommerei dalla vegetazione si trovano i ruderi di una chiesa, risalente...
Le storie del focolare – Il Biscino
Il Biscino In quegli anni ( 1895-96 ), lo stato decise di porre fine al brigantaggio maremmano. Era giunta l'ora di "acchiappare una leggenda". Era tutto un via vai, lungo i tortuosi sentieri dei Lamone e dei monti di Castro e le soleggiate e polverose...
La vita da Briganti
VITA DA BRIGANTI Tra un omicidio ed una grassazione i briganti dovevano pur vivere. Vita alla macchia, in continua fuga, da "solenghi" braccati, senza una certezza di arrivare a domani. Questo è spesso ciò che si racconta, assimilando i banditi alle belve...
Il covo dei Briganti
IL COVO DEI BRIGANTI Il rifugio del brigante era, secondo i luoghi e le occasioni, una grotta, un riparo sotto uno spiovente di roccia oppure, più spesso, una capanna in tutto simile a quelle utilizzate dai pastori e dai carbonai, realizzata con i...
Il bandito Damiano Menichetti – Il sentiero di Menichetti
IL SENTIERO DI MENICHETTI DAMIANO MENICHETTI vide la luce a Toscanella (l'odierna Tuscania) il 1 ° aprile 1858 da Domenico e Pellegrini Geltrude ma ancora bambino» unitamente alla famiglia, si trasferì a lassano in Teverina. Quasi la fotocopia di fortunato...
Il bandito Fortunato Ansuini – Il sentiero di Ansuini
IL SENTIERO DI ANSUINI Fra gli ultimi banditi dell'Alto Lazio, che agirono nel giovane Stato Italiano delia fine del secolo ecoreo, FORTUNATO ANSUINI era noto per la sua ferocia tanto che un brigante eguale Tiburzi aveva più volte rifiutato le sue offerte di alleanza,...
Il bandito Luciano Fioravanti – Il sentiero di Fioravanti
IL SENTIERO DI FIORAVANTI LUCIANO FIORAVANTI nasce ad Acquapendente nel dicembre 1857. Nipote del famigerato brigante Domenico Biagini, braccio destro di Tiburzi, durante una delie sue fughe nella "macchia", incontrò Luigi Demetrio Bettinelli, detto "il...
Il Sentiero Dei Briganti Un viaggio nei tempo… tra leggende, natura e tradizioni
Il Sentiero Dei Briganti Un viaggio nei tempo... tra leggende, natura e tradizioni Un itinerario che si snoda per quasi cento chilometri, lungo sentieri polverosi e isolati, toccando i suggestivi aspetti panoramici, naturalistici e storico-archeologici dell'Alta...
Storia il sentiero dei briganti – Viterbo
Presentazione Per la felice posizione geografica, che la natura le ha attribuito, l'Alta Tuscia è ricca di suggestivi paesaggi, arricchiti da numerose testimonianze storiche e architettoniche che meritano di essere conservate, tutelate,...